Questo articolo ha come scopo quello di disegnare un ritratto panoramico delle diverse interpretazioni del concetto di perfezionismo. Offrire un’immagine più estesa del fenomeno, descritto dalla psicologia moderna, aiuterà ad indagare tutte quelle connessioni che la prospettiva storica insieme all’analisi concettuale possono apportare alla stessa nozione di perfezione.
Prima di considerare il perfezionismo come un fattore di rischio per disturbi comportamentali che richiedono interventi specifici di auto-aiuto, o cura (descritti qui da fianco, nel lavoro di Donachie) è importante sottolineare che sia l’elevatezza straordinaria, sia coloro che ne ambiscono non devono essere considerati come patologici, o anche problematici, in alcun modo. Particolarmente quando consideriamo la competizione sportiva, un corretto bilanciamento tra un serio e modesto atteggiamento di consapevolezza per raggiungere obiettivi ragionevoli e un forte desiderio di successo è la giusta attitudine per una realizzazione completa nella ricerca di gratificazione personale. Quindi – come approccio standard – è vero che solo impraticabili, irrealistici o vani tentativi di realizzazione sono ciò che si deve evitare in tale situazione.
Quando guardiamo alla dinamica che coinvolge 1) il bisogno e/o 2) il desiderio (di essere perfetti) è solo nel primo caso che dobbiamo preoccuparci per quello che definiamo un caso alterato, personale o sociale, di orientamento del sé. E questo non è solo importante per modellare ogni intervento curativo di auto-aiuto sul perfezionismo, ma anche per comprendere in che cosa consista il perfezionismo di per sé.
Nella filosofia antica questo ideale di perfezione è rappresentato dalla virtù. È l’idea di uno stile di vita disciplinato, auto-imposto che sia gli stoici sia gli epicurei consideravano il percorso verso una fonte inalterabile di certezza per la vita pratica. Come ha sostenuto di recente Pierre Hadot – che è giustamente riconosciuto per l’inaugurazione di questo campo di studi – quello che si mostra negli scritti dei classici Greci e Romani è esattamente quello stesso paradigma ideale che funziona da modello per la filosofia morale; esattamente in questo senso, il perfezionismo rappresenta l’incarnazione della moralità, al suo picco. Com’è nei Pensieri di Marco Aurelio.
Vediamo come apparirebbe uno schema essenziale del perfezionismo nell’orizzonte delle tradizioni filosofiche, religiose e spirituali riguardante la soteriologia, la cura e l’auto-aiuto: lo spirito del perfetto standard è morale, il che significa che si deve riferire al sé interno, non al mondo esterno; dall’altro lato, è solo in armonia con l’intero “essere” che un modello perfetto per il dramma vivente nell’espressione del viaggio spirituale (e interiore) può essere trovato, il che significa che questo stesso modello di perfezione deve essere naturale (ed esteriore) per lo stesso sé. Messa in altro modo: un bilanciamento tra questi stessi due focus di drammatizzazione è posizionabile al centro di questa dinamica, ed emergerà come flusso che non deve condizionarci e limitarci, o limitarci il meno possibile. È questo flusso di coscienza – per ciò che le tradizioni spirituali antiche concordano – che la perfezione è.
In ogni caso, un limite per la perfezione è dato indirettamente. “Perfect!” (perfetto, in Ital.; parfait, in French.; dal Lat. Perficere: compiere) è ciò che indichiamo essere ultimativo, in obiettabile, ben detto o comunque “giusto”; è d’uso in tutti i potenziali sensi che vengono indicati consoni a chiudere ogni possibile discussione in logica: qualcosa di indubbiamente vero, ma ancora limitato – o al contesto, o alle prospettive – in quanto tale “relativo”, e insufficiente… Qualcosa di evidente anche in altre aree del pensiero, o dell’azione; tutti casi in cui il giudizio (e l’auto-valutazione) è necessario: un insuperato passo di danza per i ballerini di tango, o un movimento collettivo per una squadra di rugby. Tutto perfetto, e ancora perfettibile! Ai perfezionisti non interessa compiacere, anzi si oppongono di proposito al compiacimento. È qualcosa che può essere osservato nell’umana persistenza: come Kobe Bryant, nell’anticipare ogni singola sessione di allenamento nella sua squadra NBA, i Lakers, con un’aggiunta di due ore in casa; o potremmo pensare allo sforzo speciale richiesto nel provare e riprovare un singolo colpo, un calcio di punizione o un drop tra i pali, per un giocatore. Ecco un ulteriore modo di dire che la nozione di perfezione suggerisce: perseverare è la via per vincere!
Il perfezionismo può indicare un sacco di cose diverse. Quello che è importante notare in tutti questi esempi ricordati sopra è che siamo coinvolti in un’idea speciale, non-ordinaria di completezza. In effetti, celebrare la bellezza della spiritualità dello sport richiede di pensare in modo differente. Un’unità spirituale viene coinvolta. E, ancora – per quanto le antiche tradizioni convengano – un altro mondo viene evocato: spesso chiamato mistico (nelle competizioni sportive, come in compiti implicanti prestazioni: uno spettacolo musicale; o un balletto d’opera) piuttosto che dialettico. Ciò nonostante, un’attitudine razionale viene senz’altro richiesta, come per la logica. Più o meno allo stesso modo, in tutte queste prestazioni c’è una richiesta di essere coerenti col modello ideale richiesto in quelle stesse attività riguardanti il giudizio e, in generale, le relazioni di tipo interpersonale, qualora esposte ad una dimensione pubblica. Quest’ultima richiesta implica un’idea più profonda di perfezione. Una che apra una sfera di auto-stima realistica, ed una concezione mentale positiva verso il mondo imperfetto in cui noi tutti viviamo. Un ultimo esempio può aiutare a comprendere il punto relativo alla strutturazione di una ratio per quanto riguarda l’imperfezione: la questione essendo pertanto se questa idea di imperfezione possa essere tradotta in pratica.
La pratica cristiana, per esempio: in Matteo (38-48) leggiamo a proposito dell’insegnamento di Cristo di come esso si riferisca al giudizio; in effetti, ciò che è richiesto per essere perfetti, “proprio come il vostro Padre celeste è perfetto”, è di essere responsabili di fronte a ciò che la gente comune (i Gentili) pensano sia giusto, e di fare l’opposto… È direttamente nei confronti di una visione ordinaria della correttezza che la scorrettezza è richiamata dal Maestro nel celebre passo riguardante l’amore per il nemico, ed è sullo sfondo di una legge arcaica (Legge del taglione) che essa è stata proposta: Giudizio contro il giudizio – si potrebbe dire. Se chiamiamo “giudizio esteriore” il secondo ne avremo un’idea anche migliore: opporsi all’immagine esteriore di sé non è assolutamente da considerare una strategia di simmetrica “opposizione”. La magnanimità – secondo il Vangelo (per salvare la propria anima, bisogna perderla) – non ha misura né calcolo. Una coscienza che giammai consideri il giudizio come “esteriore”, qualcosa di superiore, o definitivo, in alcun senso. Al contrario, questa è la coscienza che dipende da qualcosa che lega la moralità all’umiltà, alla semplicità, alla povertà e all’imperfezione, per quanto misteriosa ed inconscia possa mostrare di essere.
Ed il “giudizio interiore”? Cosa accade se poniamo questo all’attenzione della coscienza? Che cosa ne fa qualcosa di liberatorio ed alternativo, anche se inferiore al precedente? Il Vangelo mostra cosa fare: “se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgi anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due”. La risposta sembrerebbe essere eccentrica, per dire il minimo… Agire come folli, essere pazzi: uno strano comportamento, dopo tutto! Dato il sottofondo agonistico, potremmo probabilmente meglio comprendere questo modello di moralità se lo applichiamo ad eventi e show straordinari, o se li associamo alle personalità sportive più eccentriche: qualcosa come una mossa inaspettata, mai vista prima, come quelle di Cassius Clay; qualcuno che non sorprendentemente, per poter essere così sorprendente, ha diretto personalmente la sua esibizione, quella de “il più grande di tutti”; e ancora qualcuno che ha avuto qualcosa (a partire dal proprio nome adottivo di Mohammed Ali) a che fare con il credo, la fede, l’appello a qualcosa di “altro”, trascendente se stessi. Forse, è proprio questo il percorso che porta a prendere coscienza di cos’è un comportamento spiritualmente positivo in senso agonistico, quando si è in scena, o si compete nello sport.
Ora, se consideriamo l’imperfezione al di là ogni comprensibile paura o attesa di confronto spregiudicato, o di ogni inaccettabile fame di risultati a tutti i costi, condizionante ogni orizzonte esaltante e mistificante di gloria, e se oltrepassiamo le costrizioni malate di rabbia, preoccupazione, ansia che si accompagnano al fallimento e alla pena, potremo capire che è la negazione del vero, realistico raggiungimento dei limiti della perfezione ciò che ci fa soffrire nel realizzare tutto questo, e che la realtà di tipo dualistico (sia essa la vittoria, o la sconfitta) dello spirito, così costretto ed inquadrato, è ciò che impedisce al nostro spirito di esprimersi. Un giusto omaggio ai valori della vita, acquisiti nello sforzo e nel sacrificio, è esattamente l’opposto.
La lezione dell’imperfezione è il percorso a priori obbligato, e la domanda di perfezione ne è il risultato conseguente. Ciò è vero anche per altre tradizioni religiose. E di certo, come racconta una storiella zen su un secchio abbellito perfettamente, ci sono cose che neppure la perfezione alla fine arriverebbe a poter fare.